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MONS. BENEDETTO FENAJA ARCIVESCOVO DI FILIPPI VICE GERENTE DI ROMA |
Di tratta in tratto si consacravano al ministero delle Missioni, una delle quali cominciata il 25 agosto 1762 - essendo Vescovo Mons. Castellini - rimase molto celebre. Il popolo sin dal primo giorno vi accorse in gran folla, ma per pura curiosità, massime perché si sera sparsa voce che il predicatore fosse un giovane di ventisei anni. E questi era il Sig. Fenaja, romano nato a Trastevere, il quale si mostrò così eloquente, ed ebbe tale forza ed unzione nel dire, che non ancora giunto a metà discorso, tutti, non escluso il Vescovo ed il Clero, singhiozzavano e piangevano. L'impressione di quella predica fu così viva, che il nonagenario gesuita p. Cancellotti dopo averlo udito, si recò alla Missione per abbracciarlo al suo arrivo, nell'atto che stese le braccia per dargli l'amplesso: "Figliolo mio, disse, dodici come voi basterebbero a convertire il mondo. Siate benedetto, ma non vi lasceranno morir Missionario".
Anche nei giorni feriali il Duomo era gremito: molti giovani per udir la predica si arrampicarono sulle finestre, ed altri più coraggiosi salivano sui cornicioni per assicurarsi il posto. Parrocchie ore prima la gente accorreva per assicurarsi il posto. Non minore fu l'impegno del popolo per accostarsi al sacramento della Penitenza, tanto che i quattro Missionari della Casa, ed altrettanti venuti da Roma per dar la missione, come anche i Confessori della città bastavano appena a soddisfare al bisogno. Lo stesso Mons. Vescovo, che sempre assistette alle varie prediche e per più giorni stette le lunghe ore in confessionale e distribuì di propria mano l'Eucaristia nei due giorni della Comunione generale, ne rimase oltremodo soddisfatto; onde in giorno festivo volle in abito prelatizio recarsi alla Missione per rendere le più vive grazie ai banditori della divina parola, come pure per attestare loro la propria riconoscenza ed ammirazione.
... Avendo il Sommo Pontefice indetto il Giubileo per il 1775, dispose che si facessero al riguardo delle Missioni, una delle quali fu predicata in S. Andrea della Valle dall'8 al 21 dicembre dai Sigg. Fenaja e Antonini. Nel 1775 la Congregazione proposta agli affari della Compagnia di Gesù, aveva determinato di affidare ai Missionari - e per sempre - l'Oratorio della Carovita, alla quale proposta diedero questi reciso rifiuto, temendo che quel servizio avesse in seguito a distornarli dalle occupazioni del loro istituto. Anzi fu questa la ragione per cui sul finire di quell'anno cessarono di occuparsene.
Non riuscirono per altro a sottrarsi al servizio della Chiesa di S. Vitale e nel 1778 dovettero assumere la Direzione della Congregazione de' Nobili ed il Sig. Fenaja - di recente nominato Visitatore - dovette sobbarcarsi anche questa occupazione.
Comunque tutto questo sta a provare la benevolenza del Santo padre verso i Missionari, come osservò il Sig. Antonio Jacquier, succeduto nel 1762 al compianto Sig. Debras, morto il 21 agosto del precedente anno. Ma sta pure a provare la grande attività dei Missionari, uno dei quali, certo monaci, dopo la Pasqua del 1784, fece sorgere una bell'opera, intitolata "della Porta" perché nacque e si sviluppò presso una camera attigua all'ingresso della casa. Gli inizi furono questi: incaricato a preparare alcuni ragazzetti alla Prima Comunione questi rimasero siffattamente contenti delle istruzioni che loro faceva in forma attraente, che promisero sarebbero andati alla Missione tutte le domeniche e feste, e furono di parola. Dapprima si riunivano dopo la Messa cantata; in seguito anche nel pomeriggio e finirono poi con l'adunarsi tutte le sere, attirandovi altri giovani ed adulti.
La calma che regnava nelle Case nostre d'italia, ben presto venne sconvolta. era un anno appena che il Sig. Felice Cayla - succeduto nel 1788 al Sig. Jaquier, morto il 6 novembre 1787 - reggeva la Famiglia di S. Vincenzo, quando alle ore tre del mattino del giorno 12 luglio 1789, i rivoltosi che si succedevano a migliaia irruppero a S. Lazzaro, e non cessarono che alle cinque di sera, dal mettere a soqquadro ogni cosa, sicché nulla d'intatto rimase nella casa Madre: tutto il mobilio o rotto o inviolato, inviolato il denaro e scomparse tutte le provvigioni. A stento i Missionari, non escluso il P. Generale, riuscirono a mettersi in salvo dando la scalata alle mura del giardino, e solo poterono rientrare in casa a devastazione compiuta. La Comunità cominciava a riaversi, quando il 21 settembre 1792, essendo stata abolita la Monarchia e proclamata la repubblica, il Sig. Cayla, lasciata la casa di S. Lazzaro, dovette prendere la via dell'esilio. Rimasto nascosto alcun tempo in Parigi, riparava in seguito ad Amiens.
L'Italia pure, cominciò a raccogliere gli amari frutti della Rivoluzione francese, poiché dalla Francia giungevano a noi molti missionari raminghi in cerca di esilio. A tutti pensò il grande cuore del Sig. Fenaja, il quale con Breve del 25 giugno 1793 era stato provvidenzialmente eletto da Pio VI Visitatore Apostolico, perché in sì tristi contingenze governasse tutta la Congregazione. Egli tenne tale ufficio non più di cinque mesi. In vero: il Padre Cayla lasciato Amiens sul principio del 1793, e rifugiatosi quindi nel Belgio ed in seguito ad Ipri in Fiandra, al Signor Fenaja - con una lettera che gli giunse il 9 dicembre di quell'anno - comunicava d'essere in grado di riprendere il governo. Alla Comunità poi - con circolare del 1° gennaio 1794 - partecipava che trovandosi a Manheim nel Palatinato ne assumeva effettivamente la direzione. Nel maggio successivo recatosi in Italia - dietro invito avuto dal S. Padre, con Breve dell'11 marzo - dopo avervi visitate pressoché tutte le case, giunse a Roma il 9 novembre, accolto con ogni amorevolezza dal Sig. Fenaja, che gli mostrò quanto il merito suo personale, la sua dignità e le stesse sue sventure glielo rendessero caro e rispettabile.
Il P. Cayla, che nel suo esilio aveva già conosciuto il valore del Sig. Fenaja attraverso la corrispondenza epistolare, potè con maggiore agio costatarlo di persona, specialmente nella circostanza che Pio VI - a far argine alle imminenti sciagure che sarebbero piombate su Roma per l'arrivo dei Francesi in Italia nel 1796 - dopo aver esaurito quanto l'umana prudenza suggeriva, indisse Missioni, che si diedero in varie piazze. Piazza Navona, perché più ampia e più frequentata, fu assegnata ai Preti della Missione, uno dei quali era appunto il Signor Fenaja, il quale spiegava tanta fendia e zelo, che più ore prima del sermone accorrevano da tutte le parti per procurarsi un posto. V'era gente perfino sui tetti delle case, e taluni giunsero a penetrate nell'interno della principale Fontana del Bernini per mettersi a sedere sulle statue e sugli ornati, che circondano l'obelisco. Tutta la piazza rigurgitava di popolo in maniera che dopo S. Leonardo da Porto Maurizio non si era mai più veduta tanta gente ivi raccolta. Lo spettacolo che maggiormente impressionava era il contegno di sì grande moltitudine, che al sol apparire del Missionario si componevano a raccoglimento, tutta attenta alla voce di lui, non lasciandosi sfuggir parola. Ciò che recava ancor maggior ammirazione, e produceva la più viva impressione anche ne' cuori più duri, era la strepitosa ed universale commozione di quell'immenso uditorio al termine della predica, onde e vicini e lontani facevano risuonare all'intorno forti singhiozzi e alte grida, chiedendo misericordia e perdono.
Di quella memoranda Missione rimane vivo il ricordo del seguente fatto. Un dì il Sig. Fenaja, nel salire sul palco, si avvide che in certo punto della piazza, era sorto bisbiglio contro alcuni ebrei, che si volevano escludere: "Olà! gridò il Missionario, che cosa fate? Anch'essi sono nostri fratelli ...anch'essi, come noi, costano a Gesù tutto il suo Sangue ... anch'essi, come noi, hanno bisogno delle divine misericordie: fate largo! date posto! ..." Fu prontamente obbedito, e quei poveri ebrei furono talmente commossi per l'atto sì cortese, che rimasero per tutta la predica: tornarono alle altre, e infine la grazia trionfò dalle loro menti e dai loro cuori, poiché chiesero ed ottennero d'esser battezzati.
Il timore di Pio VI per la venuta dei francesi in Italia, si avverò purtroppo, che avendo egli stipulato a Tolentino il trattato di pace con la Francia - assai umiliante per Lui - dovette subirne le tristissime conseguenze. Anche i Missionari, ebbero a soffrirne, avendo dovuto sottostare alle dure ingiunzioni di Napoleone, riguardanti lo spogliamento di quanto d'oro e d'argento avessero le comunità religiose.. Per questo il Superiore di Monte Citorio, il Sig. Cotenovis, fu costretto a vedere la Chiesa e la casa spogliate di centotrenta libbre d'argento, e d'una libbra d'oro ... e poi il decadimento di cedole, e le monete deprezzate e i generi rincarati, e sempre nuove imposte: cose che al suo cuore erano colpi crudeli, perché si vide costretto a mantenere la numerosa famiglia a forza di debiti, i quali in breve ascesero a 1500 scudi. Con la partenza di Pio VI avvenuta il 20 febbraio 1798 - dietro ordine dei francesi che entrati in Roma addì 15 avevano proclamata la repubblica - dei nostri, oltre il Superiore, dovettero esulare altri quattro, avendo la nuova Repubblica dato il bando ai religiosi che non fossero romani. Sussisteva quindi la casa, ma in condizioni durissime, poiché per la legge del bando vennero da altre parti molti Missionari (i soli fratelli laici ascesero al numero di 20). a mantener tanto personale erano sufficienti i fondi di Castel Gandolfo e di Amelia: i luoghi de' monti erano sospesi: i debitori non potevano o non volevano pagare.
Finalmente - il 25 aprile 1799 - venne il colpo atteso da tempo; la soppressione della casa. Presa quindi nota dei beni, furono posti i sigilli all'Archivio e alla Biblioteca; e i soggetti, parte destinati a S. Agostino, parte ai SS. Apostoli. Peraltro l'ordine dello sfratto - per il ricorso del P. Generale Cayla ad un Rappresentante della Repubblica in Roma - fu ritirato. Ma non per questo migliorarono le condizioni economiche della Casa. Il pane era confezionato con farina di granoturco;vino non ve n'era se non per la messa. Tutti di buon grado soggiacquero alla dura condizione ...e lo stesso Superiore Generale Cayla volle essere trattato alla pari degli altri. Ma la dura prova ben presto cessò, ché sorsero benefattori e vennero aiuti, specialmente dalla casa di Napoli, donde giunse per mare - ed in più volte - grano ed olio in quantità; le elemosine poi ascesero a 500 scudi. Finalmente le cose si ricomposero, perché il 2 ottobre 1799 i francesi furono costretti dai tedeschi, russi ed inglesi ad uscire da Roma: e la Repubblica quindi tramontava.
La condizione in cui si trovava la Congregazione in quei tempi era anormale, ma l'anormalità s'accrebbe più ancora alla morte del Superiore Generale, avvenuta a Monte Citorio il 12 febbraio 1800. Si ebbe qui una serie di Vicari generali, la cui posizione divenne assai critica e difficile.
Il Sig. Brunet, l'unico Assistente generale, che si trovava in Roma, radunata la comunità, dopo aver annunziata la perdita testé fatta, non essendosi potuto rintracciare alcun documento comprovante la nomina del Vicario generale, fece leggere il paragrafo 12° delle Costituzioni particolari, così concepito: "Morto il Superiore Generale, il governo della Congregazione fino all'elezione del nuovo Superiore spetta a colui che il predecessore avrà eletto all'ufficio di Vicario o al 1° assistente, qualora il Vicario non fosse stato nominato o non fosse stato nominato o non potesse esercitare il suo ufficio". - Malgrado tale documento i Missionari non vollero riconoscere il Sig. Brunet quale Vicario, basandosi specialmente su un Decreto di Pio VI, col quale gli emigrati francesi rimanevano privi di ogni voce attiva e passiva nelle case ove erano ospitati. A dirimere la questione si dovette ricorrere alla santa Sede, la quale - a mezzo della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, con decreto del 17 maggio 1800 - dichiarava appunto il Vicario Generale il Sig. Brunet. Questi alla Circolare diramata alla Comunità il 25 dello stesso mese unì la seguente noticina: "che egli, fra le carte segrete dell'Onoratissimo padre, aveva rintracciata una scheda munita di sigillo, nella quale - il 30 ottobre dell'anno precedente - il P. Cayla aveva lui designato quale Vicario generale".
Il Sig. Brunet, appena eletto, nominava dei suoi Assistenti, il Sig. Domenico Sicardi che già Assistente del Sig. Cayla, allorché questi fuggì da Parigi, fuggì egli pure nel 1792 alla volta d'Italia. Il secondo era il Sig. Fenaja, il quale giunse da Firenze, ove si era rifugiato all'arrivo dei francesi in Roma.
Questi ebbe ben presto un altro e più elevato incarico. Il novello Pontefice Pio VII, eletto a Venezia il 14 marzo 1800 ed entrato trionfalmente in Roma il 3 luglio, elesse a suo Vice Gerente De Pietro, persona da tutti stimata per pietà e dottrina. ma rifiutando egli tale onorificenza, e d'altronde non avendo il coraggio di dare un reciso rifiuto al Papa, pregò l'amico Sig. Fenaja ad interporsi presso il Sommo Pontefice per esserne esonerato. E realmente il Fenaja perorò la causa e sì bene, che Pio VII, dopo averlo ascoltato in grande silenzio, rispose: "La grazia è fatta. Mons. De Pietro non sarà Vice gerente. Il Vice gerente l'abbiamo innanzi a Noi! E' il Padre Fenaja!" - Ebbe questi un bel destreggiarsi per declinare la carica! Tutto fu inutile. L'eloquenza sua se riuscì a persuadere il Pontefice a non eleggere Mons. De Pietro, non riuscì affatto a pregarlo, a proprio riguardo. Gli fu quindi giocoforza chinare il capo, sul quale - il 27 settembre - ascendeva la consacrazione episcopale compiuta dal Card. Duca d'York. Il 1° novembre 1804 il Vice Gerente Fenaja - Arcivescovo di Filippi - accompagnava il Papa a Parigi per l'incoronazione dell'Imperatore Napoleone I, che ebbe luogo il 2 dicembre. Di ritorno dalla Francia, essendosi Pio VII soffermato a Firenze, ebbe la consolazione di vedere umiliato a suoi piedi Mons. Ricci, già Vescovo di Pistoia, il quale abiurati i suoi errori, rientrava in grembo alla Chiesa, ma fu Mons. Fenaja che tanto lavorò per procurare al Vicario di Gesù Cristo gioia si pura.
Poiché per un decreto di Napoleone del 7 Maggio del 1804, la Congregazione della Missione veniva ristabilita in Francia, il Sig. Brunet alla fine d'Ottobre decise far ritorno a Parigi, tanto più che i Missionari francesi reputavano necessaria la sua presenza per accelerare il ristabilimento della Compagnia.
Quelli di Roma a tale risoluzione accompagnata dalla dichiarazione di non voler più far ritorno in Italia rimasti assai male, tennero consiglio, ed avendo osservato come egli non avesse presa alcuna disposizione per il governo della Congregazione, e che da Parigi ove non aveva casa né Assistenti gli sarebbe stato impossibile dirigerla, deliberarono all'istante di ricorrere al S. Padre. E questi il 30 Ottobre diede loro un Breve, col quale il Sig. Brunet aveva il governo della Congregazione nelle Missioni estere e quello delle Figlie della Carità; avendo il Sig. Sicardi il rimanente della Compagnia. Questi il 13 Maggio 1806 fu eletto Pro Vicario a Roma, avendo Pio VII accordato al Sig. Brunet il titolo di Vicario Generale per tutta la Congregazione, titolo che passò pure il 9 Dicembre dello stesso anno al Sig. Plasiard, dopo la morte del Sig. Brunet, avvenuta il 15 Settembre, rimanendo però sempre al Sig. Sicardi il titolo di Pro Vicario a Roma.
Poichè il Sig. Plasiard il 5 Gennaio 1807 fece osservare al S. Padre gli inconvenienti che potevano venire dall'esserci in Congregazione un Pro- Vicario, titolo ignoto nelle Costituzioni, Pio VII con Breve del 9 Giugno dell'anno stesso ristabiliva l'unità di governo facendo cessare il Pro- Vicariato del Sig. Sicardi che nominò primo Assistente con facoltà ,di rimanere in Roma. Al Sig. Plasiard, morto il 16 Settembre di quell'anno, il Papa dava a successore il Sig. Hanon Domenico.
Ed ora per riprendere l'ordine cronologico della Casa di Monte Citorio: l'anno 1803 il Sig. Romualdo Ansaloni informato che il Collegio di Propaganda versava in cattive acque, e però non poteva mantenere gli Alunni che si sarebbero presentati, propose al Card. Borgia, che ne era Prefetto, di mandarne dodici a Monte Citorio, i quali vivessero e fossero istruiti insieme ai Convittori; e questo per soddisfare il debito, che la Casa aveva con Propaganda, di una rendita annua di 2000 scudi, senza contare gli arretrati che erano considerabili. Il Cardinale fu contentissimo, e nell'Ottobre i Propagandisti cominciarono a recarsi a Monte Citorio, prima due, poi altri fino a sedici. Questi facilmente si sottomisero alla regola, conoscendo già lo spirito dei Missionari, dai quali erano da tempo diretti.
La Casa continuava ad essere dal principio alla fine dell'anno una continua missione, sì numerosa era l'affluenza di gente per farvi gli esercizi spirituali o in privato o in squadre regolate.. Vi si vedevano Vescovi, Nunzi Apostolici, Cavalieri, Avvocati, Mercanti, egiziani, bulgari, transilvani, armeni, tedeschi, spagnoli, francesi, italiani d'ogni Provincia, turchi ed ebrei: questi ultimi per disporsi ad abbracciar la vera religione col ricevere il Santo Battesimo. Oltre questo lavoro, non indifferente davvero, c'era ogni Martedì la Conferenza per gli Ecclesiastici, la Congregazione ogni Domenica pei Chierici: la scuola dei sacri riti, cerimonie e canto gregoriano, e l'opera «della Porta» la quale continuò - cambiandosi solamente luogo dei convegni - anche nel 1808 e nei seguenti anni, in cui si svolsero a Roma dolorosi avvenimenti. Infatti dietro ordine di Napoleone, che volle vendicarsi del rifiuto di Pio VII ad annullare il matrimonio del fratello Girolamo, e più che altro per non aver il Papa voluto aderire al blocco continentale, con cui il prepotente despota voleva nuocere ai soli inglesi, il 2 Febbraio del 1808 entrò in Roma un'armata francese sotto gli ordini di Miollis, formando un assedio intorno al Pontefice per piegarlo ai voleri di Napoleone. Ma avendo il Papa impavidamente resistito, più veementi si fecero le violenze contro di lui il 10 Giugno, poiché gli fu tolta ogni cosa. Strappata da Castel S. Angelo la bandiera papale, vi issarono la francese, in seguito al qual atto di aperta ostilità, il Papa al mattino appresso fece affiggere alle porte di tutte le Chiese la Bolla di scomunica. Il 6 Luglio - un'ora avanti giorno - una turba di gendarmi, e di galeotti guidati dal Generale Radet, data la scalata alle finestre del Palazzo Quirinale, rotte a colpi di scure le porte dell'appartamento Pontificio, penetrarono fino alla camera ove il S. Padre li attendeva.
Dopo le intimazioni arroganti del Generale, il Papa lo seguì col Card. Pacca, ed entrambi furono deportati: il Pontefice dapprima a Grenoble in seguito a Valenza, Savona e Fontainebleau; laddove il Segretario di Stato fu rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle.
Precedentemente all'esilio di Pio VII, il 26 Giugno fu fatto partire violentemente il suo Vice Gerente Mons. Fenaja, senza essergli stato neppure concesso di congedarsi dal Santo Padre. Condotto dapprima a Firenze, quindi inviato a Bologna - ove sostò presso i Confratelli - trascorsi alcuni giorni, proseguì il viaggio sino a Parigi, prendendo alloggio nella Casa delle Missioni estere, non avendo potuto ritirarsi dai nostri, perchè privi ,di abitazione. Là egli viveva nel ritiro e nella preghiera, ,ma col cuore spezzato dal dolore, specialmente all'annunzio dell'esilio inflitto al Sommo Pontefice. Altro vivo dolore per lui il risapere che il Vicario Generale Sig. Hanon, succeduto il 14 Ottobre 1807 al Sig. Plasiard, era stato il 17 Novembre 1809 relegato a S. Pol sotto la vigilanza della Polizia in seguito poi a Fenestrelle. Motivo di tal pena fu l'aver egli fortemente resistito ai voeri dì Napoleone; il quale voleva sottrarre le Figlie della Carità alla giurisdizione e direzione del Superiore della Missione; in conseguenza del qual rifiuto il prepotente Imperatore, con decreto 26 Settembre 1809, sopprimeva la Congregazione.
Le sofferenze fisiche, e - più di tutto - le morali, da cui Mons. Fenaja era continuamente tormentato, congiunte alla grave età di 77 anni finirono di abbatterne la robusta fibra; ed egli cessava di vivere il 20 Dicembre 1812. Del suo corpo, rimasto a Parigi, il fedele suo cameriere, Giuseppe Lista, riuscì a portare in Italia il cuore, del quale fece dono ai missionari di Monte Citorio, che collocatolo nel sotterraneo della Chiesa vi soprapposero la seguente epigrafe, dettata dal Barnabita Grandi:
Quae tulit a Gallis famulus precordia secum
Fenajae heic fratrum ponere cura fuit
MDCCCXVIII
Il 10 Ottobre 1925 dalla Chiesa di S. Apollinare, insieme ad altre 5 distinte cassette di zinco con i resti dei corpi del Card. Lanfredini, nostro benefattore, del P. Cayla, Vicario generale della C.M.; del P. Roberti, Superiore di Monte Citorio, di Mons. Rosati, C.M. e del P. Folchi, furono trasportate al Collegio Leoniano e sepolte sotto la Cappella di s. Vincenzo, dove fu pure collocato il cuore di Mons. Fenaja Vicegerente del card. Vicario di Roma e dove ancora oggi sono collocati eccetto i resti di Mons. Rosati che furono trasportati nel settembre del 1954 nella Cattedrale di St. Luis (Stati Uniti) dove fu primo Vescovo.