STORIA E OPERE
DELLA CASA DELLA MISSIONE DI SAN JACOPO SOPR'ARNO
I missionari
Per capire il lavoro missionario è indispensabile conoscere i principali protagonisti delle missioni popolari predicate dalla comunità vincenziana. Nel Granducato di Toscana, i Preti della Missione venivano comunemente denominati "Barbetti", a causa della barba che portavano, secondo quanto era stato stabilito all'epoca del superiore generale Jolly, oppure "Cucùli", perché andarono ad abitare in case che precedentemente erano destinate all'uso di altre persone o comunità religiose.
Nel Libro in cui si debbono notare i nomi dei soggetti che vengono e partono, per il periodo compreso fra il 1703 ed il 1784, sono registrati centottantasei sacerdoti, quarantadue fratelli coadiutori e sedici tra chierici e novizi della congregazione. Questi ultimi vi erano stati inviati, perché si riteneva che l'aria della capitale toscana fosse più salubre di quella romana. In media erano presenti diciotto sacerdoti e dieci fratelli coadiutori. I missionari venivano facilmente trasferiti da una casa all'altra, non solo all'interno della provincia Romana, alla quale la casa di Firenze apparteneva, ma anche in quella Lombarda.
Solo trentotto Preti della Missione rimasero nella casa più di dieci anni; alcuni vi restarono pochi mesi, altri due, cinque o sei anni. Inoltre, occorre sottolineare che ben trentatré soggetti furono dimessi o lasciarono spontaneamente la Congregazione della Missione, mentre si trovavano a Firenze. Possiamo domandarci per quale motivo un numero così rilevante. I documenti consultati raramente lo lasciano intravedere, tuttavia possiamo supporre che questo fosse dovuto sia ad un problema vocazionale in quanto non risultavano adatti per la Congregazione della Missione, sia perché alcuni ritenevano che la vita missionaria fosse troppo esigente.
I missionari erano quasi tutti italiani. Oltre ad alcuni corsi, divenuti cittadini francesi nel 1768, vi risiedettero due portoghesi, un fiammingo ed un tedesco. Nonostante la presenza nutrita di Preti della Missione nella casa di Firenze ed il loro ampio raggio d'azione, tuttavia i giovani toscani, che chiedevano di far parte della Congregazione della Missione, furono pochi. Francesco Maria Pelle e Giuseppe Tosi giustificavano il fatto con l'indole dei Toscani « contrari ai rigori troppo necessari dell'Istituto ».
Dai documenti manoscritti che si conservano, sfrondati delle inevitabili lodi, è possibile ricavare elementi attendibili, che permettono di mettere in luce alcune figure di Preti della Missione.
Paolo Canossa venne trasferito da Reggio Emilia a Firenze il 28 ottobre 1703, all'età di cinquantacinque anni. Predicò fino al 1717, quando dovette interrompere l'attività missionaria per una infermità che « patì con rassegnazione » e lo accompagnò fino alla morte sopraggiunta nel 1723. In quattordici anni di attività, lavorò in ottantadue missioni, con una media di sei all'anno. Intraprese il primo itinerario missionario, organizzato dalla casa di Firenze, nella diocesi di Pisa, dove l'arcivescovo Frosini lo volle con sé nella visita pastorale compiuta nella parrocchia di Mazeca.
Angelo Andrea Menicucci era nato nella diocesi di Amelia, nel 1682. Giunto a Firenze nel 1714, vi rimase fino alla morte sopraggiunta il 30 gennaio 1758, o 1757, secondo lo "stile fiorentino". Il relatore della missione predicata a Montalcino (1740) sottolineava: « Menicucci che non è adatto, era nuovo per luoghi simili ». Evidentemente aveva percorso molta strada se poterono scrivere che dedicò tutta la vita alla predicazione missionaria e si applicò con « zelo instancabile ».
Fu osservatissimo del regolamento... Si potea dire, [e] infatti era tenuto come un perfettissimo esemplare di un vero... missionario ».
Giovanni Battista Spanzotti (1699-1767), era « uomo di talento, molto sottile e penetrante, ornato di molta erudizione e profondo sapere... Nella casa di Firenze si esercitò per più anni nelle missioni ». Insegnò filosofia speculativa a Roma. Lavorò ad Avignone, Piacenza, Macerata ed infine ritornò nuovamente a Firenze dove morì. Compose un'opera storica e ordinò «in forma gli articoli di una buona parte della Somma di S. Tommaso».
Il lavoro missionario era piuttosto faticoso. Divisi in "squadre", costituite regolarmente da tre sacerdoti e da un fratello coadiutore, rimanevano lontani da Firenze per molti mesi, in prevalenza da ottobre a giugno, periodo nel quale era più facile trovare i contadini disponibili. Ci furono però anche missioni predicate nei mesi di luglio, agosto e settembre. Normalmente ogni missione durava da due a sei settimane, ma, specialmente in quaresima, alcune, predicate da un solo Prete della Missione, si protrassero per sette giorni. La durata dipendeva dalla densità della popolazione e dalla situazione dei singoli paesi. A Vico Pisano la missione fu interrotta prima del previsto, per « l'inaspettata svogliataggine ne' popoli ».
I racconti dei viaggi, descritti a volte con fine ironia, lasciano intravedere le difficoltà che i missionari dovettero affrontare. Venivano compiuti nel periodo invernale con il freddo intenso, o in estate sotto il sole cocente, a piedi, in calesse, sul dorso dei muli o con le barche.
Per raggiungere più velocemente Pontedera, si potevano utilizzare le imbarcazioni che prestavano servizio sull' Amo, ma durante il viaggio dei missionari la « stranezza del tempo e la gagliardia de' venti costrinse i navicellai a fermarsi al Callone, in una casa, o locanda molto mal riparata assegno che il vento di tramontana entrava da per tutto e quella notte si passò molto male ». La strada per raggiungere S. Luce era ali 'inizio agevole, ma poi, man mano che si procedeva, diventava pessima, specialmente quando pioveva. La diocesi di Sovana si raggiungeva in calesse, con circa quattro giornate di viaggio che di solito non comportava notevoli difficoltà. Invece, nel 1642, il percorso, effettuato dall'Isola del Giglio a Pitigliano, fu drammatico. Dopo aver navigato per tutto il giorno, i missionari approdarono a Castiglione della Pescaia. Presi i cavalli, si avviarono verso la meta, ma smarrirono la strada e si trovarono « fra macchie di marrucche ». Soltanto l'incontro con un Maremmano, a cui dovettero offrire del denaro, permise di ritrovare la strada giusta. Per recarsi a Galeata era necessario servirsi dei muli che settimanalmente percorrevano la mulattiera che collegava la città con Firenze, ma gli animali non erano sempre docili. Al Prete della Missione Filippo Piccini uno di essi « ...gli volle rompere il collo per la gran coppia di calci, che di quando in quando gli sparava... ». Altre volte i missionari viaggiavano con la pioggia torrenziale, o con la neve. A Montieri, il tempo era talmente inclemente che « si poteva dire di nuotare nell' acqua ». A S. Luce, invece, conclusa la missione, quando i preparativi erano stati ultimati e consumati i rimanenti viveri, i missionari non poterono partire a causa dell'abbondante nevicata che li obbligò a prolungare la permanenza, nonostante fossero privi dell' indispensabile per nutrirsi.
Nella maggior parte dei casi la popolazione accoglieva con entusiasmo i missionari. Anzi, bastava l'annuncio della loro presenza per attirare le popolazioni. A S. Croce si suonarono le campane e tutto il clero si radunò in sacrestia per accoglierli. In alcuni paesi dell'Isola d'Elba, che non avevano avuto la missione, gli abitanti con le lacrime agli occhi, implorarono i missionari, perché concedessero loro la predicazione ed obbligarono il vescovo di Massa a scrivere al superiore di Firenze, affinché accondiscendesse alle loro richieste. Le donne di S. Maria in Bagno svenivano in chiesa per la grande commozione e le molte lacrime versate; anche gli abitanti di Prata facilmente piangevano durante le prediche. Il vescovo di Pescia, soddisfatto della predicazione, volle che i missionari, che avevano percorso la sua diocesi negli anni 1770-1771, ritornassero l'anno seguente.
Così Giovanni Battista Rainaldi (1737-1799), Lorenzo Geraldini (1742-?), Ludovico Ginesio (1712-1776) ed il fratello coadiutore Antonio Maria Imperiali ritornarono per la campagna missionaria del 1772. Gli abitanti della città di Pescia, però, non accolsero volentieri i missionari. I notabili del luogo avevano diffuso fra il popolo la notizia che i canonici avrebbero impedito di fare le funzioni liturgiche nel duomo. L'accoglienza di Pistoia fu altrettanto "fredda". Si sosteneva che i Preti della Missione davano penitenze molto "dure", e che erano stati inviati dal Granduca per convincere la gente a pagare le tasse. A Monte Isi furono ricevuti freddamente dal popolo e dagli ecclesiastici. Li fecero attendere mezz'ora in mezzo alla strada e in seguito li condussero nella casa di un contadino. A Montieri furono accolti mal volentieri dal parroco che non era stato avvertito del loro arrivo.
Elemento costante è la convinzione che chi in qualche modo ostacola la missione viene punito da Dio. A Caste l del Piano, una donna che « seminava zizzania » tra la gente, si ruppe un braccio e durante la missione dovette rimanere a letto. A Pereta, i due giovani libertini che avevano detto pubblicamente di voler scacciare i missionari, furono ridotti in fin di vita.
Trovare l'alloggio costituiva uno dei primi problemi che i missionari dovevano affrontare, appena avevano raggiunto la meta. Qualche volta doveva essere pagato. Nella città di Pescia, a causa delle dicerie, fu negato da colui che aveva avuto l'incombenza di darlo. Anche il parroco di S. Maria a Monte non procurò l'abitazione, perché non voleva la missione. A Castellina in Chianti il fattore, incaricato di accoglierli, finse di non sentire, benché « le picchiate fossero cannonate, e ciò per far dispetto al pievano ». I missionari furono obbligati ad alloggiare nella pieve. Le monache di Borgo S. Lorenzo, invece, rifiutarono di concedere una stanza che potesse essere adibita a cucina. A volte le case erano comode, situate vicino alla chiesa, altre volte umide, o infestate, secondo le dicerie popolari, dagli "spiriti" che disturbavano con fastidiosi rumori e lontane dalla parrocchia.
A S. Luce, i missionari si sistemarono nella canonica disabitata. L' abitazione era comoda, ma priva di vetri. Inizialmente, fu necessario tenere chiuse le imposte per ripararsi dal vento e dal rigore della stagione, in seguito si provvide con la tela.
Frequentemente la diffidenza iniziale si trasformava in entusiasmo e in disponibilità all' ascolto dei predicatori. Nel primo periodo trascorso a Cascina, i vincenziani soffrirono molto per l'accoglienza assai fredda, per l'alloggio, dove trovarono solo i letti, e per altri motivi che le relazioni scritte dai missionari lasciano intravedere, senza accennarli. A metà missione, però la situazione cambiò completamente e diventò così calorosa che al termine della predicazione i Preti della Missione dovettero trattenersi alcuni giorni per concludere le confessioni.
Le chiese erano sovente piccole e insufficienti per accogliere tutti coloro che presenziavano alle funzioni. Spesso si doveva erigere l'altare all' esterno degli edifici ecclesiastici, perché tutti potessero accedervi. Ombrosi castagneti si trasformavano così in luogo sacro, ma a volte improvvise burrasche, obbligavano ad interrompere la predica e a « saltare dal bosco alla chiesa ».
I disagi dei viaggi, le chiese umide e fredde, la fatica della predicazione, il rigore dell' inverno a cui i missionari si esponevano accaldati, furono elementi che causavano malattie. I relatori segnalarono sovente la presenza di infermi. Il superiore della casa, Francesco Filippi, s'ammalò durante la missione di Signa. Ritornato a casa, morì dopo una decina di giorni. Giacinto Ghighetti, pur essendo ammalato, continuò la predicazione. Francesco Maria Trentini era stato mandato a Firenze all' età di venti sei anni, perché insegnasse teologia morale ai convittori, ma la debole salute e la tendenza alla tubercolosi fecero prendere ai superiori la decisone di inviarlo nelle missioni popolari, perché ritenevano che l'aria della campagna, più salubre di quella della città, potesse favorire la ripresa fisica del Prete della Missione.
A S. Margherita a Monticci aiutò il predicatore; a Cascia, a Montanino, a Pieve a Scò e a Castelfranco si occupò del catechismo. Fino a quel momento aveva dissimulato la malattia, ma a Pieve di Rignan0240 dovette interrompere la missione e far ritorno a Firenze dove morì dopo quindici giorni. Durante la missione di S.Quirico, morì Ludovico Ginesio, dopo «penosissima malattia».